Neil Gaiman: «American Gods»

Emanuele Guarnieri
America! America? – Sguardi sull’Impero antimoderno n. 6/2014
Neil Gaiman: «American Gods»

Che ne è degli dèi e delle creature che popolavano le antiche leggende? Dove sono finiti Zeus, Kali, Anansi e Loki? E i pixies, i coboldi, i djinn, le driadi? Coloro che sembravano la materia fondamentale delle storie e del mondo sono scomparsi senza lasciare traccia nel cuore degli uomini – che parevano scorgerli ad ogni latitudine, a tal punto da far affermare ad uno di essi, Talete, «tutto è pieno di dèi». Forse, però, questo non è del tutto vero. Forse non sono svaniti, sono semplicemente sbiaditi, il loro potere è diminuito, ma essi continuano sottilmente ad influenzare le nostre vite. E forse ci sono nuovi dèi che vogliono prendere il loro posto. Questo è, in sintesi, il palcoscenico su cui si svolge American Gods, capolavoro a metà tra fantasy, thriller e noir di Neil Gaiman, protagonista del fantastico contemporaneo già acclamato per la sceneggiatura di Sandman. Immaginate un detenuto. Il suo nome è Shadow. Scarcerato al termine della sua condanna, senza un posto dove andare, Shadow è solo al mondo. Non del tutto, però: mentre torna a casa per prendere parte alle esequie della moglie, viene contattato da un personaggio che si fa chiamare Mr. Wednesday, che sembra sapere tutto della sua vita. Non tarderemo a scoprire che costui altri non è che il dio norreno Odino, il quale ha bisogno del protagonista per combattere una guerra grandiosa.

Innumerevoli divinità e creature magiche sono state infatti condotte nel Nuovo Mondo dalle schiere di emigranti giunte nei secoli, che li hanno portati nei loro cuori e nelle loro menti. Ma, col passare dei tempi, la fede negli antichi dèi si è affievolita, lasciando il passo a nuovi, poderosi Titani, incarnazioni dello Zeitgeist. Odino, con l’aiuto di Shadow, dovrà condurre gli antichi numi a combattere contro i nuovi, in una battaglia senza quartiere che ha per posta l’anima d’America.

Tessuto magistralmente in svariate sottotrame, American Gods si presta a numerose letture, a causa della complessità del plot e al notevole numero di elementi che vi sono incastonati. Oltre al conflitto tra le divinità, la cui direzione è costantemente accennata dai sogni di Shadow, il lettore viene a conoscenza di come nasce un dio, come si compie la sua ascesa e cosa lo attende al suo declinare. Sono inoltre degne di interesse le numerose vicende che inframmezzano la trama principale e che narrano come le creature ultraterrene siano giunte in America, o come se la cavi un ifrit (creatura della mitologia araba) ai giorni nostri. A ciò va aggiunto l’ulteriore valore costituito dal pregevole stile di Gaiman, estremamente dettagliato: con noncuranza, lo sguardo indugia sulla perfetta calligrafia di Thoth, dio egizio della scrittura, o sulla spilla a forma di frassino (uno dei simboli di Odino) impercettibilmente appuntata sulla giacca di Wednesday. Sotto il profilo dei contenuti, la scelta più interessante dell’autore è il tentativo di tracciare uno schizzo dello spirito americano, costituito dal puzzle delle laconiche impressioni che qua e là i personaggi si lasciano sfuggire e dalla dimensione complessiva del racconto, che non offre soluzioni acquisite una volta per tutte, chiedendo piuttosto di essere interrogato e meditato.

Quali sono davvero gli dèi d’America? Quali sono le forze in gioco nella costruzione della sua identità? Queste alcune delle domande che il lettore si troverà ad affrontare al termine del romanzo. A sottolineare l’importanza di questo tema, Gaiman fa dire a Wednesday/Odino: «Questo è l’unico Paese al mondo che si domanda chi è. Tutti gli altri sanno chi sono. Nessuno ha bisogno di cercare il cuore della Norvegia. O l’anima del Mozambico. Sanno chi sono» (p. 110). Vale la pena chiedersi quanto ciò sia vero, o meglio, quanto i processi svoltisi negli USA in poche centinaia di anni possano far comprendere quanto accaduto in tempi molto più lunghi in altri luoghi del mondo, ovvero come si venga a costruire un’identità (l’anima) nazionale e quali fattori vi intervengano.

Ancor più interessante è quindi il fatto che lo spirito americano sia indagato a partire dalle divinità che popolano gli Stati Uniti, leggibili metaforicamente come forze che si affrontano e il cui conflitto plasma e plasmerà il volto dell’America. Costoro mantengono dei legami esteriori con le splendenti figure leggendarie di cui narravano i miti, ma sono inesorabilmente in declino e alla costante ricerca di fonti di potere che consentano loro di permanere nella memoria: devono far sì che il loro nome venga ricordato, le loro gesta celebrate e la propria figura sia fatta oggetto di culto tra i mortali. Viene infatti rivelato che «ci sono dèi che sono stati dimenticati, e ormai potrebbero anche essere morti. Li si può trovare soltanto dentro antiche storie. Sono scomparsi» (p. 60). Tra i molti che vengono nominati o che hanno un ruolo effettivo nel romanzo, ricordiamo il già citato Odino, che si procura di che vivere truffando e ingannando; Chernobog, divinità slava delle tenebre, in pensione dopo aver a lungo lavorato in un mattatoio come abbattitore; Bilqis, dea asiatica della sessualità, la quale esercita il mestiere più antico del mondo, e Mr. Nancy, ovvero Anansi, trickster africano, oggi un simpatico vecchietto dalla battuta pronta. Dal canto loro, Anubi e Thoth gestiscono, prevedibilmente, un’agenzia funebre. Ironicamente, Gesù Cristo, sicuramente il dio de facto più proclamato negli Stati Uniti, è ricordato solo di sfuggita, a dimostrare come siano ben altre le potenze che signoreggiano sul cuore americano. Dèi nuovi sorgono infatti nel volgere di tempi brevissimi: il nume del carbone, dell’acciaio e della macchina a vapore è oggi un relitto abbandonato. Gli antagonisti degli antichi dèi, le nuove potenze sorgenti, sono Media, affascinante young lady, manifestazione del potere delle televisioni e dei giornali, il Ragazzo Tecnologico, un adolescente brufoloso, signore dei dati e dell’innovazione, che minaccia Shadow (e il suo protettore Odino) con queste parole: «Digli che abbiamo riprogrammato la realtà. Digli che il linguaggio è un virus, la religione un sistema operativo e le preghiere sono junk mail» (p. 56). Costoro sembrano guidati dal misterioso Mr. World, le cui identità e natura costituiscono il fulcro stesso e l’enigma più profondo del romanzo, svelato solo nel finale. Così come è degna di essere meditata la reale identità che si cela dietro la figura dal capo taurino che compare insistentemente nei sogni di Shadow, e che rappresenta probabilmente l’entità più autenticamente “divina” del romanzo, la cui esistenza sembra presiedere al sorgere di qualsiasi nume.

La peculiare “teologia” di Gaiman tratteggia un mondo di dèi insicuri, che possono permanere o estinguersi al volgere della fortuna delle loro vicende – una condizione, in effetti, simile a quella delle divinità greche, sottoposte all’imperio del Fato, o a quelle norrene, destinate a perire con il giungere del Ragnarök. Questo, però, non ci deve trarre in inganno: non ci troviamo affatto di fronte a una messa in ridicolo ironicamente “postmoderna” degli dèi o delle loro storie. L’autore prende anzi molto sul serio la materia. Il fulcro del romanzo, il suo asse teorico, potremmo dire, ha una premessa fondamentale, ricordata in epigrafe: «Tutte le persone, vive o morte, nominate nel libro, sono frutto della mia immaginazione, oppure usate in modo immaginario. Soltanto gli dèi sono reali». Analogamente, constatando gli eventi ai quali ha assistito, Shadow sentenzia: «La gente crede. È così che fanno. Credono. E poi non si prendono la responsabilità della propria fede; evocano le cose e non si fidano delle evocazioni. Popolano le tenebre di spettri, dèi, elettroni, storie. La gente immagina e crede: ed è questa fede, questa fede solida come la roccia che fa accadere le cose» (p. 475).

Che significa tutto ciò? Gaiman, da questo punto di vista solido discepolo di Chesterton, Lewis e Tolkien, ha come questi ultimi una grande fiducia nel duplice potere delle storie: la capacità di rendere interpretabile il caos del reale, nonché agire retroattivamente sul reale stesso. In effetti, l’ennesimo aspetto che rende American Gods una sorta di “classico contemporaneo” è la significativa metariflessione sullo scrivere, sulle storie e l’arte di narrarle coerentemente affidata alle pagine stesse del romanzo.

Potremmo azzardarci a dire che, dal punto di vista narratologico, scrivere di dèi e dichiarare la propria fiducia nella loro esistenza e nella loro potenza equivale a sostenere l’efficacia e la forza delle storie stesse. Si può infatti ipotizzare che le divinità simboleggino i racconti per antonomasia, dal momento che esse sono le indiscusse protagoniste delle narrazioni più antiche del mondo. Nell’intreccio questa dichiarazione di poetica molto esplicita ed epistemologicamente “forte” è, non a caso, inserita nel taccuino degli appunti di Mr. Ibis, alter ego del dio Thoth: «Il modo migliore per scrivere una storia è raccontarla. È chiaro? La si descrive, a se stessi o al mondo, raccontandola. Raccontare è un atto compensatorio, un sogno. Quanto più dettagliata è la mappa, tanto più somiglia al territorio. La mappa più accurata possibile diventa il territorio, quindi perfettamente dettagliata e perfettamente superflua. Il racconto è la mappa che è il territorio. Non bisogna dimenticarlo» (p. 483). Certamente, la “mappa” di cui ci dotano i racconti è complessa e mai definitiva. Una gigantesca mappa con la quale perdersi e ritrovarsi nei territori della conoscenza. Neil Gaiman, American Gods, traduzione di Katia Bagnoli, Mondadori, Milano 2002, pp. 523, € 11,00.

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